Il mio insegnante ciccione di Muay Thai ha più il physique du role del lottatore di sumo. Questa settimana si è appena comprato uno smartphone nuovo. Ne è molto felice, e fa fotografie a tutti. Quando la chiede a me, mi alza la banda elastica dei pantaloni sopra l’ombelico, esercizio che peraltro ha molto poco senso in uno sport in cui non si può propriamente parlare di colpi proibiti. Guardo la foto e sembro molto professionale, in effetti: un Alvaro Vitali con i pantaloncini sopra l’ombelico, ma molto professionale.
Sui pantaloni c’è una scritta in thai che pare incutere molto timore. O almeno, a me lo incuteva. Quando ho scoperto che voleva dire semplicemente “muay thai” ci sono rimasto molto male.
L’insegnante ciccione risulta nel casottino dell’amministrazione in foto sgualcite con tute della nazionale thailandese: in quegli scatti presenta un’invidiabile mascella che lo colloca immediatamente nel mio suggestionabile immaginario come il Ridge del Siam. Il collo è meno taurino di quanto lo sia adesso. Quando proviamo le prese alte a volte si stacca e ricaccia un urlo in gola. Poi si gira, e mi indica la causa dei suoi fastidi: il tendine di un muscolo del deltoide si è staccato dal suo alloggio, e questo fa sì che questa polpetta di carne galleggi sospesa per la sua schiena, sobbalzando ad ogni passo.
La mattinata aveva proposto un tiepido sole: la coltre di nubi si era disgregata in un gregge di ovini che già nel primo pomeriggio si era ricostituito in strati sovrapposti, cinerini, per dare un senso al nome della stagione delle piogge.
Quando piove, i tappeti di gomma azzurra dell’Ingram Muay Thai rilasciano gli umori di qualsiasi evento li abbia attraversati in precedenza. Come una spugna dalla memoria paleozoica, ecco quindi spurgare dalla membrana elastica ogni strato d’epidermide dei piedi dei migliaia di boxeur che l’hanno calpestata; ogni animale che ne sia rimasto schiacciato negli ultimi dieci – a giudicare dal colore forse anche venti – anni, ogni goccia proveniente dalle scariche di piogge acide è adesso miscelata e rigettata come un composto chimico letale nelle narici di chi sta facendo addominali o flessioni, con il viso a pochi centimetri da loro.
In un angolo della palestra – quale, dipende dalla serate, è difficile dirlo a priori, ma è comunque sempre un angolo, in cerca di qualche conforto dalle percosse della vita – c’è un cane: è un meraviglioso esemplare di mastino inglese. O meglio, quello che resta di un meraviglioso esemplare: adesso avrà cent’anni. E questo al netto della conversione tra anni umani e anni canini, nel famoso rapporto di 1:7. No, questo deve avere cent’anni di suo. Dev’essere nato quando Bangkok era ancora nota solo come Krung Thep, la città degli angeli, e deve aver fatto il bagno nei canali un tempo limpidi ed ora appestati dai liquami dei 14 milioni di abitanti della megalopoli. A giudicare dai bubboni cremisi che escono da ogni sua giuntura, come se il corpo ormai scarnificato non bastasse a contenere tutta la sua storia, e questa cercasse un modo di uscirne un po’ per volta, prima di quella decisiva – a giudicare dai bubboni, dicevo, probabilmente deve aver fatto il bagno in quei canali anche in tempi più recenti. Si muove a trazione anteriore, in un movimento comunque elegante, anche se di un’eleganza più rettile che mammifera: le uniche due zampe buone caricano il peso di tutto il retrotreno, che scivola completamente inerte lasciando tracce inequivocabili del suo passaggio – peli fulvi incanutiti, forme liquide indistinguibili, un leggero mugolio quando deve lasciare i tappetini di gomma per avventurarsi sul cemento nudo, nell’area dov’è installata la sua scodella per l’acqua.
Quando ti passa vicino, credi di sentire nitido cosa sia l’odore della morte. Oggi però a un certo punto ha cagato sul tappetino di gomma e allora ho capito che no, era quello l’odore della morte.
La palestra è su tre livelli: quello dei tappetini di gomma, appunto, dove ci si scalda saltando la corda e calciando i grandi sacchi sospesi, con gradi di durezza crescenti. Un primo ring sopraelevato, non recintato, dove ci si allena sotto comando – “punch!”, “kick”, “elboooow!” – il tutto ritmato dagli “oooo-ay”, a rimarcare i colpi andati a segno. Ed infine il ring, quello vero, con le corde, i parastinchi da indossare e il grosso catino d’acqua gelata dove ci si può rinfrescare se ci si è allenati bene, a fine sessione.
La palestra è ubicata in una sorta di enclave giapponese, con divertimenti serali ad esclusivo appannaggio dei giapponesi. Prima di venire qui, per me tutti gli asiatici erano essenzialmente dei cazzo di occhi a mandorla. Ora ogni cazzo di occhi a mandorla ha assunto fisionomie riconoscibili anche alla mia vista di Occhigrandi: riconosco al primo cenno di sorriso il thai dal coreano, il cinese dal mongolo. Su Corea e Giappone a volte mi confondo ancora un poco. La popolazione di clienti della palestra, comunque, è essenzialmente composta da nipponici. Li riconosci soprattutto quando sono vestiti, con borse Asics, magliette per aiutare la respirazione, fascette della Nike a contenere i loro capelli di noodle.
Il mio sparring partner abituale è invece un ragazzino thai di 14 anni, che pesa 51 kg, fatto che lo rende una sorta di supermassimo per la sua categoria. Quando mette le fasce di protezione, sul pugno destro deve apporre una doppia copertura, per via di alcune sbucciature sulle nocche. Ha muscoli appena accennati, dalla forma allungata, e un tatuaggio sul petto di una maschera tradizionale thailandese che copre una bruciatura. O forse è il contrario. Ha un amico giapponese, che credo sia il suo migliore amico da come si parlano pur non capendosi. Lui deve avergli insegnato qualche parola tipo arigato e i numeri. Nel suo campionario immaginifico quella è la lingua che parlano “gli altri”: che sia l’inglese di Harvard o il dialetto di Tokyo, quella lingua è la lingua straniera, quella dei farang. Quando mi si rivolge parlandomi in giapponese, pertanto, si stupisce che io non capisca.
Ad ogni modo oggi non mi tocca battermi con lui, ma con un altro thai, più tozzo e ben più anziano.
A vederlo bene, credo sia il primo thai sotto i 35 anni col riporto.
Quando lotta pronuncia vocali rotonde, che poggiano solidamente sul diaframma, come un mantra, e agita le mani come i picchiatori di Street Fighter. Sta immobile al centro, io gli giro intorno, spesso a vuoto. È tra i pochi di cui intuisco le mosse: quando carica il kick sinistro, la mia gamba destra si solleva, il gomito si abbassa leggermente, a costituire un’unica barriera di ossa, dall’ulna allo stinco. Se sono veloce a sufficienza, posso provare a colpirlo di controbalzo, non appena poggio il piede a terra: il destro si fa perno per reggere il movimento del bacino, che asseconda il mio attacco. Se lui è più veloce di me, parerà il mio colpo e mi calcerà sull’appoggio con un kick basso, facendomi franare a terra.
Ma non oggi.
Il punto è controllare il tempo. Ogni attività della palestra è cadenzata dalla regola del 4+1. Quattro minuti di attività, uno di riposo. Se uno prova a compiere attività di qualsiasi genere, che non siano rifocillanti o rilassanti, nel minuto di riposo, viene ripreso da tutti gli altri. Una volta ho smesso di saltare la corda 10’’ secondi dopo il bip della sirena del grande orologio digitale – non so a che cazzo stessi pensando, in genere aspettavo quel suono come si aspetta il Messia, o almeno il triplice fischio dell’arbitro quando sei in 10 e stai pareggiando in trasferta. Non è successo niente di speciale: uno dei clienti mi si è avvicinato, mi ha messo la mano sul braccio, abbassandolo leggermente, e facendomi intendere che non era il caso.
Quando passi tre ore consecutive in un luogo ed ogni cosa che fai è regolata da un metronomo fisso, per quanto asimmetrico, quella scala continua a dominare il tuo bioritmo anche dopo: ti verrebbe da applicarla anche sul lavoro, mentre scrivi una mail, quando prepari la cena a casa. È una maniera assolutamente efficiente di gestire il proprio tempo: non concede appigli al procrastinamento. Per quattro minuti sei concentrato unicamente su *qualsiasi cosa tu stia facendo*. Nel minuto successivo puoi decidere se dedicarti ad altro o semplicemente a riposare l’organo che di più hai stancato precedentemente.
Se controlli il tempo, puoi controllare anche la posizione. Sai che se ti sposterai sul ring con una certa esattezza, e mantenendo certe distanze, potrai schivare l’attacco basso: se ti terrai sufficientemente distante dalle corde per il primo minuto e mezzo, dosando la tua stamina, e il tuo avversario ti avrà rincorso, avrai a disposizione trenta secondi di attacco, e poi due minuti di controllo.
Ci fosse qualcuno che tenesse davvero i punti stasera, i miei sforzi di calcolo sarebbero premiati, ne sono certo. “Float like a butterfly, sting like a bee” mi suggerisce un eco che ha radici lontane, in Ivan Drago e Rocky Balboa.
Un uomo contro un altro a cercare di fare più male di quanto ne riceva. La sintesi della storia umana, in quattro minuti più uno.
Per un attimo, penso che oggi potrei concedermi una doccia nello spogliatoio pubblico. Un bacarozzo lungo come il palmo della mia mano piazzato in bella mostra nel poggiasaponetta mi fa redimere.
Qualcosa ferma il disegno del semicerchio di apertura della porta del bagno. È il cane. La porta è sufficientemente vicino a un angolo cieco. Non sono sicuro si sia accorto dello scontro – in fondo ho aperto la porta con un movimento piuttosto continuo, e lento: le mie forze residue non mi permettono scatti di nessun genere – ma quando me lo trovo lì davanti, e lo guardo nelle cataratte, per quanto mi renda conto che il gesto che sto per compiere sarebbe sconsigliato da qualsiasi medico, veterinari inclusi, mi risolvo ad accarezzarlo. Dalla maniera in cui si immobilizza al contatto con le unghie nere della mia mano avverto che è una cortesia che da tempo nessuno si era preso la briga di fare più.
Esco, e in strada mi accoglie la liturgia del traffico di Rama IV. Cammino a gambe leggermente divaricate, avverto la presenza di muscoli di cui sto apprendendo i nomi ad ogni nuova contrazione. Mi dirigo verso Ekkamai, e i suoi ristoranti di ramen a buon mercato. Sono le 18,30 – le 13,30 in Italia, non riesco ad esimermi di fare sempre il conto – ed il tramonto spegne le luci naturali sulla città, mentre l’Em Quarter aumenta l’intensità dei suoi grandi led digitali.