L’autobus che collega Beirut a Byblos, in arabo Jbeil, tiene la porta perennemente spalancata, incurante della pioggia torrentizia che sciacqua il lungomare della Corniche dei suoi detriti.
Ha 784.000 km all’attivo – sempre i soliti, una ruota di criceto dal raggio un po’ più largo -, dodici passeggeri, una sola marcia, la prima. Si ferma ovunque ci sia un essere umano che voglia salire a bordo, e a volte decide di non aver bisogno neanche di questo pretesto.
Impiegherà un’ora e 35′ per coprire i 37 km che dividono le due città. La pazienza è nata in Medio Oriente.
È probabile ci sia pure morta.
È la Beirut Design Week, ma non ci sono modelle russe e i vernissage offrono pita e formaggini Mio.
La città ha il colore che avrà Milano tra 100 anni, dopo venti crisi finanziarie e quattordici milioni di posti di lavoro persi in favore dei robot.
La città ha i monti che Milano non avrà mai.
Dallo scoppio della guerra civile in Siria il Libano ha ospitato 2 milioni di profughi del regime di Assad. Due-milioni. Su una popolazione di 4. È una migrazione più liquida di quanto vediamo in Italia: i profughi non arrivano dal mare, spesso si spostano in macchina, con mezzi propri, non si distinguono dai libanesi che per le targhe delle auto. Ho parlato con libanesi infastiditi, libanesi entusiasti, libanesi indifferenti alla grande migrazione.
Byblos è un enorme giardino pensile di fossili e marmo, un porto da una cinquantina d’ormeggi, ben protetto da libeccio e scirocco. Sembra impensabile che di qui in epoca romana partissero i principali carichi di cedro di tutto il Mediterraneo, che all’epoca si poteva approssimare con “mondo”, ed è un’approssimazione che nella mia testa vale ancora molto.
Nessuno, appena mi vede, comprende che non sono nato qui. Mi parlano in arabo e sono sorpresi che non li capisca. Quando poi capiscono che non li capisco, provano a fottermi in ogni modo: gonfiando i prezzi delle corse in taxi, i conti delle cene. Ripasso i numeri, l’unica cosa che conosca in questa lingua, per la più primordiale delle negoziazioni.
Sarei potuto nascere qui, dove il Mediterraneo si concede più caldo. Avrei potuto fumare il narghilè nelle spiagge dietro Zaytuna Bay o finire per laurearmi all’università americana nel distretto finanziario. In tal caso, non avrei fatto caso oggi alle pattuglie di militari e i carrarmati sotto i flyover. Avrei respirato questi ottani da Euro 0 senza filtri antiparticolato e li avrei chiamati semplicemente ‘aria’, invece che ‘ossigeno appestato’.
Sarei potuto nascere qui, nel Basso Mediterraneo, e allora sarebbe stato qui che avrei fatto e disfatto le mie valigie.
Sarei potuto nascere qui, invece sono nato a una latitudine diversa di questo stesso mare-mondo che manca un filo che non si possa chiamare lago. Le tragedie che decido quotidianamente di ignorare si chiamano Bataclan e Manchester, invece che Kobane e Hebron. I corpi si stendono all’ombra di sicomori e ulivi taggiaschi, è più difficile nasconderli che tra le chiome frondose dei cedri.
Mangio il riso avvolto nella vite / tutto è a base di melanzane / i ceci interi vanno sui ceci frullati / cammino su lungomari che principiano in slum e finiscono in marine / avrò un visto sul passaporto che fungerà da stimmate.
Sarei potuto nascere qui, e sarebbe stato qui, allora, che avrei fatto perno.