Abbiamo sonno, un sonno che si tramanda da generazioni, il sonno
di Neanderthal, Cheope, Muzio Scevola, abbiamo capacità di concentrazione
inferiori alla trota iridea dei Grandi Laghi del Nord Italia, e abbiamo
Il momento nella vita in cui scopriamo le donne, o forse sono le donne a scoprire noi, abbiamo
Dei prima, dei poi, abbiamo assegnato arbitrariamente
Alla nostra vita sensi che non le furono designati, per questo
Abbiamo barbieri capaci di leggerci la mente attraverso le tempie,
attraverso forbici che sono buone conduttrici di empatia con le recisioni,
Barbieri-professori indulgenti ci chiedono esattamente quello su cui vogliamo essere
Interrogati, mentre ci massaggiano la testa col balsamo alle ortiche.
Abbiamo polluzioni notturne in stanze d’hotel dove una cameriera formosa
ci ha allungato di straforo un profiterole avanzato dal buffet della mattina.
Abbiamo lo zenzero, la galanga, il cardamomo,
l’olio, purché di ricino, pensiamo
sia un diritto inoppugnabile avere
gambe
nude
che ci consegnano colazioni a letto, bisbigliando al cuscino “hai
russato come un capibara, tesoro”. Abbiamo
spazzolini abbandonati, dimenticati in sarcofagi di trousse
di Chanel, appartenenti a donne di cui non ricordiamo il profumo.
Abbiamo i cristalli della neve, a ricordarci
L’inadeguatezza della nostra patetica asimmetria. Per questo,
abbiamo altari, per scoprirne le loro versioni miniaturizzate.
Abbiamo sete, e sabbia per placarla; abbiamo
Impegni inderogabili che procrastiniamo per la quisquilia
Di un corteggiamento, un flirt con la cassiera del cinema
Che ci sorrideva per il ricordo di una battuta precedente.
Abbiamo il sole delle nostre città, infiammato
Come un’appendicite, quando l’alba è ancora una promessa
Tutta da verificare. Abbiamo il progresso, la certezza
Del progresso, l’incedere, la fermezza dell’incedere,
cos’è il progresso, dov’è l’incedere, verso cosa,
abbiamo la fine della fruizione.
Abbiamo microscopi, per analizzare le oscenità delle gocce
D’acqua, penetrarne i nuclei, possederne le formule sostanziali.
Abbiamo vestiti che sopravvissero
Ai loro legittimi proprietari, altri
Che ci sopravvivranno, senza che nessun Esopo
Ne sappia più ricavare alcuna morale da fiaba.
Abbiamo cognomi lunghi per supplire alla
Brevità del nostro cazzo, abbiamo collezioni
Di Bibbie consunte, dalle copertine rosse, rubate
In motel durante quel viaggio transappenninico,
abbiamo psoriasi, artriti congenite, denti sporchi come
i cessi della stazione di Orano, malattie ereditarie ancora
non manifestatesi. Abbiamo riporti ridicoli, riposti i sogni
in cassetti la cui chiave smarrimmo nella sezione hard
della Videoteca VideoVip. Abbiamo la boria dell’ambizione,
il complesso di Edipo, album di figurine cronicamente incompleti
abbiamo grucce frequenti, dislocate in ogni stanza dei nostri monolocali
di periferia, cui appendere i nostri fallimenti
quotidiani, abbiamo pile crescenti di libri sul comodino
per accrescere il nostro senso di inadeguatezza
eppure
ostinatamente
ho la certezza, cesellata nel porfido di Luserna, che
è valsa la pena di tutto, per finire seduto qui, ora,
su questa sedia cigolante crivellata di gomme da masticare
stratificate nei secoli, ad ascoltare
fingendomi distratto, il resoconto della tua giornata
in ospedale e la lista dei prodotti in saldo al Lidl,
provenire
dal fiato guaritore
della tua bocca.