A me piacciono le città. Mi piace anche il mare, e talvolta gli spazi verdi, ma a patto che siano contenuti comunque da delle piazze, inscritti in tangenziali: che siano delimitati insomma. Sotto controllo.
Mi piacciono le città perché dentro ci sono le persone. Lo so, anche in altri posti ci sono persone, ma il punto è che negli altri posti sarebbe meglio che non ci fossero. Invece, in città è giusto che ci siano, che ci si muovano, che animino quotidianamente quello spettacolo micidiale che se ti fermi a guardare da fuori ti sembra per quello che è: un manicomio formidabile. Ecco perché mi piacciono le città. È una questione di giustizia.
Nelle città, specie quelle un po’ complesse, mi piace perlopiù viverci, per capirle. Illudermi di essere un autoctono, fare la spesa dove la fanno loro, sbuffare inarcando il sopracciglio ai turisti che si fanno i selfie davanti ai monumenti, usare gli acronimi come fanno i tipi giusti locali.
Prima di questi due mesi, ero stato a New York solo due volte in vita mia, entrambe per periodi relativamente brevi. Per me, fino ad allora, New York voleva dire Manhattan.
Voglio dire, non che non mi fossi costruito un percorso che mi portasse a spaziare anche verso Brooklyn, Astoria, il Bronx e il Queens, ma era più che altro un pretesto per smarcare dei punti dalla lista che mi ero fatto in testa.
La prima cosa che è cambiata quindi da quando sono arrivato qui è che ora sto a Brooklyn. Più precisamente, a Greenpoint, che è il quartiere dove Williamsburg non è più Williamsburg ma non è neanche ancora Long Island City. È un quartiere di confine, quindi, ed è pieno di polacchi.
Davvero: pieno. La lingua locale del quartiere è il polacco. Punto. I bambini in questo giugno hanno tutti la maglia di Lewandowski e i deli vendono pierogi e vodka Zubrowka, insieme a dei bomboloni che a sentirne l’odore sembrano buonissimi ma se li mangi poi muori.
I primi tempi che stavo qui, per me New York ha continuato a voler dire Manhattan, anche perché al mattino dovevo sorbirmi comunque quasi un’ora di commuting. E quando ci metti un’ora a raggiungere un posto, ti devi pur convincere che sia quello il posto dove vale la pena stare.
Ma poi, col passare del tempo, mi sono reso conto che, ufficio a parte, in questo quartiere di confine tra Long Island e Brooklyn avevo tutto quello di cui avevo bisogno.
Il quartiere dei polacchi è piuttosto orizzontale: le case non superano i 4 piani, molte sono villette decorate con il sobrio gusto statunitense che impone battenti adornati di teste d’aquila e vessilli a stelle e strisce ad intervalli non superiori ai 30 metri. È un quartiere essenzialmente residenziale: chi ci lavora, lo fa da un coworking space, tipo quelli della sede di Vice, da Starbucks o da uno a caso di questi caffè che ti fanno venire tantissimo voglia di entrare finché poi non entri davvero e bevi il caffè o mangi uno scone. Non è solo che una colazione può costarti 20 dollari. È proprio lo stomaco che ti consiglia di farti prendere meno per il culo. Funziona così per tutto, in America: è tutto estremamente invitante, ma una volta che ti avvicini capisci che sei dentro a un cazzo di teatro di posa. Sempre.
Nel mio quartiere, comunque, ora ho un locale preferito.
Il mio locale preferito è il Pete’s Candy Store. Si chiama Pete’s Candy Store perché effettivamente è un ex negozio di caramelle, che poi ha annesso un giardino e un’altra parte che forse fungeva da magazzino e ora invece funge da teatro insonorizzato con vecchi contenitori alimentari di polistirolo.
La verità è che a Brooklyn tutto è un ex qualcosa: gli abitanti, gli edifici, gli spazi pubblici. Credo fosse così sin dalla nascita: quando gli olandesi fondarono la nuova Amsterdam, quello che a loro sembrava un terreno vergine era già in realtà un’ex fonderia rasa al suolo, dove un artista indie(ano) aveva scelto di vivere isolato dal resto del mondo rifiutando una dieta a base di bisonte in favore di radici organiche e avocado che ancora dovevano essere scoperti.
Il Pete’s Candy Store è un piccolo gioiello di ingegneria contro il disturbo: in ogni angolo il locale è disseminato di cartelli che invitano a rispettare il silenzio e il vicinato che dorme. La cosa più sorprendente è che gli ammonimenti, per una ragione attualmente in fase di studio da un gruppo di ricercatori della Columbia University, funzionano: la gente si ubriaca sobriamente, i cori partono afoni e le molestie avvengono nel più pieno rispetto del “NO PDA” – acronimi che dovrete imparare, se volete passare anche voi come locali: Public Display of Affection.
Il Pete’s Candy Store offre un programma culturale serrato, dalle 17 alle 2 del mattino ogni giorno. Ci sono nomi che a me non dicono niente, e altri che mi ispirano simpatia. In nessun caso li conosco.
Il bello è che non sai mai cosa ti può aspettare: la gente sale sul palco secondo un ordine imperscrutabile ma precisissimo, e di lì ogni cosa può accadere. C’è chi improvvisa un balletto, chi suona un banjo accompagnato da un’armonica a bocca montata come gli apparecchi a “baffo” di quando ero ragazzino – e che hanno distrutto la mia autostima nell’estate del 1995 -, chi legge pensieri che sembrano molto intimi in un dialetto della Pennsylvania che faccio fatica a seguire. A volte una lesbica si lamenta della puttana che l’ha mollata nell’ultima relazione, altre c’è chi si presenta con una maglietta di Bernie Sanders benché la campagna per le primarie dei Democratici siano ufficialmente archiviate con la vittoria di Hillary. Vorrà dire questo, il Sogno Americano in cui non mi è ancora permesso entrare?
La gente arriva nel locale perlopiù in solitaria, e così faccio io. Se c’è qualcosa che ho capito di questa città, è che è una città di solitudini: come tutte le metropoli, certo, ma qui un po’ di più. Di tutti i posti in cui ho vissuto, questo è anche quello con il più alto grado di straordinarietà delle persone che si incontrano. Non esiste una vita banale, tutti sono arrivati qui da qualche posto e paiono destinati altrove. Tutti si ritrovano a loro modo intrappolati qui, eppure tutti se ne dicono estremamente entusiasti. D’altronde, New York non è una città a caso: è The City. La Città.
Per questo, nelle conversazioni pubbliche e private centellino chirurgicamente i miei dubbi, tastando la disponibilità a mettere in discussione La Città prima di instillarli nell’orecchio del mio interlocutore, e solo di rado posso esprimerli sinceramente. La Città è cara, La Città è grande come la Lombardia e ha i problemi di trasporto della Calabria. Eppure: non si discute. Se ci trovi qualcosa che non va, quello che è sbagliato sei evidentemente tu.
La Città genera entusiasmo ma soprattutto eccitazione. Quelli che aspettano di fare qualcosa sono così excited dall’attesa che non stanno nella pelle. Quelli che l’hanno appena fatta sono così excited che l’evento sia successo, e che loro fossero lì a testimoniarlo. Tutto quello che fai, il posto da cui vieni, quello in cui andrai: tutto è exciting, come se stessi parlando con una città – pardon, La Città – che ancora si sta ripulendo con la manica le narici sporche di eroina. L’eccitazione rende La Città febbricitante, una febbre costante che qualsiasi medico diagnosticherebbe come malattia.
Ma dicevamo del negozio di dolciumi di Pete. Per entrare nel locale non si paga nulla, nell’impero del capitalismo in cui vige il principio della tip, la mancia per qualsiasi prestazione. Se lo spettacolo val la pena, capita spesso che al bancone al bar non ci sia nessuno a servire: tutti, proprietario e camerieri inclusi, sono ad ascoltare o, nei 2 mesi scarsi all’anno che il tempo lo concede, a godersi il piccolo giardino fiorito nel retro, oltre una porta uscita dal saloon di un set di Sergio Leone.
Il pubblico è variegato, ma ha generalmente una grande caratteristica in comune: una totale cecità da interni che gli impedisce di abbinare in qualsiasi modo sensato il proprio abbigliamento. Rispetto al resto di Williamsburg, non mi sento neppure in dovere di fingermi omosessuale per non sentirmi discriminato, e posso persino scorciarmi la barba prima di uscire di casa e lasciare nell’armadio la camicia a quadri senza avvertire lo sguardo severo del giudizio dell’autoctono contro chi, palesemente, è straniero.
Quando la situazione lo richiede, ordino un ginger ale, liscio. Non sempre riesco a seguire il flusso di coscienza degli artisti, ma cerco di rimanere concentrato sui testi. Le incomprensioni mi generano epifanie e immagini che poi riutilizzerò. Non mi sento neanche in colpa, perché non sto rubando. Solo fraintendendo.
Anche le parole a Brooklyn sono un ex di qualcosa. Le rielaboro nel cervello per farne edifici nuovi.